In un mondo che ci bombarda ogni giorno con nuovi oggetti, offerte imperdibili e algoritmi su misura, c’è chi ha deciso di dire basta.
Non per moda, non per crisi economica. Ma per scelta.
Stanno crescendo in silenzio, lontano dai riflettori, piccoli gruppi di italiani che smettono di comprare.
Vestiti di seconda mano, mobili recuperati, cene condivise invece di aperitivi a 15 euro.
Gente che ripara, scambia, autoproduce. Non per nostalgia del passato, ma per amore del presente.
È una nuova Italia, fatta di individui che si interrogano su cosa davvero serva per vivere bene.
Che si chiedono se possedere tutto ci stia privando di qualcosa. Che mettono in discussione l’intero sistema con gesti semplici, quotidiani, ma potenti.
Meno scontrini, più tempo. Meno plastica, più relazioni. Meno “voglio”, più “scelgo”.
Non sono eremiti, né fricchettoni.
Sono maestre, giovani freelance, artigiani, genitori, pensionati. Abitano in paesini o quartieri metropolitani. Fanno rete. Parlano di comunità, di lentezza, di libertà.
E spesso anche di felicità.
Il consumo compulsivo ha anestetizzato la noia, lo stress, perfino la tristezza. Ma quando si smette di comprare, tornano a galla le domande vere. Quelle che fanno paura e meraviglia insieme: “Chi sono, quando non consumo?” “Cosa mi nutre davvero?”
Questa non è decrescita felice da libro da scaffale. È una ribellione culturale con la faccia pulita, fatta di vita vera. È l’Italia che non appare su TikTok ma che esiste e piano piano, forse, cambia le cose.
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